Matthew Day Jackson. In search of… / MAMbo, Bologna

Fino al primo maggio il pubblico italiano potrà esplorare l’universo immaginativo di uno degli artisti di spicco della nuova scena artistica americana, autore capace di coniugare la grande ricchezza di fonti d’ispirazione e spunti tematici con  una notevole varietà di materiali e tecniche creative.
Il MAMbo di Bologna è il primo museo in Europa a mettere [...]

Fino al primo maggio il pubblico italiano potrà esplorare l’universo immaginativo di uno degli artisti di spicco della nuova scena artistica americana, autore capace di coniugare la grande ricchezza di fonti d’ispirazione e spunti tematici con  una notevole varietà di materiali e tecniche creative.

Matthew Day Jackson, The Tomb, 2010. Courtesy MAMbo. photo: Matteo Monti

Il MAMbo di Bologna è il primo museo in Europa a mettere in mostra il lavoro dell’artista statunitense Matthew Day Jackson, allestendo un’esposizione personale antologica, per quest’artista che pensa al suo lavoro come a una ricerca archeologica che parla di futuro.
Day Jackson, californiano trapiantato a New York, è tra i più brillanti esponenti di una generazione d’artisti americani che fa l’avanguardia senza definirsi avanguardista, rifiuta l’ideologia, e risulta quasi completamente impossibile da etichettare.
Le opere che compongono In search of… mettono in luce in modo chiaro i punti focali dell’attività artistica di Day Jackson: la passione per la raccolta d’oggetti, intesa come collezionismo di testimonianze dell’esistenza umana su questa terra, la registrazione dello scorrere del tempo, il gusto per la citazione e l’ironia pop.
I lavori selezionati, tutti realizzati nel periodo di tempo compreso tra 2006 e 2010,  sono stati scelti e adattati in modo tale da accompagnare le architetture del museo bolognese, costruendo un allestimento organico che denuncia la stretta collaborazione di artista e curatore nella progettazione dell’esposizione.
Prima di riempirlo con le sue opere l’artista ridisegna lo spazio dell’ex Forno del Pane tramite la luce, applicando delle pellicole colorate, che coprono l’intero spettro cromatico, ai lucernari della sala.
L’uso che Day Jackson fa del colore non è mai meramente decorativo, nasconde, altresì, un preciso valore semantico: la somma dei colori del prisma è il bianco, simbolo dell’esistenza totale, colta al suo stato puro e incontaminato, mentre il grigio, come unione del bianco col nero, rappresenta l’esperienza umana. La vita è intesa come contaminazione di un equilibrio perfetto.
Il centro della sala è dominato da Foucault’s Pendulum, suggestiva e ambigua opera che interagisce direttamente con le forme dell’ex edificio industriale, sottolineando la straordinaria altezza del soffitto. Questo pendolo in perpetuo movimento, che scende fino a terra dopo un volo di 16 m, riproduce un profilo umano di taglio futurista, reso ancor più evocativo dal riflettersi delle luci al neon sulla  superficie metallica.
Altro lavoro di sicuro impatto è Chariot II (I like America and America likes me), opera composta dalla carcassa di un’automobile, acciaio, tubi al neon e feltro, alimentata da pannelli solari posti sul tetto dell’edificio, il cui titolo cita una delle più famose performance di Joseph Beuys.

Matthew Day Jackson, Chariot II (I like America and America likes me), 2007/2010. Courtesy Matthew Day Jackson e Peter Blum Gallery. photo: Adam Reich.

La citazione d’opere di maestri del contemporaneo è comune in Day Jackson, quale risultato di reminiscenze personali, epifanie determinate dall’avvicinarsi di un’opera a qualcosa di già visto e conosciuto. Nel caso di Chariot II è semplice capire come l’uso del feltro abbia rievocato la poetica dell’artista tedesco.
Parla di coesistenza tra morte e vita, passato e futuro, The Tomb, grande installazione scultorea che trae spunto dalla tomba monumentale di Philippe Pot conservata al Louvre di Parigi. I quattro monaci incappucciati che nell’originale sollevano l’effigie di Pot sono qui sostituiti da grandi astronauti in legno e plastica, realizzati utilizzando il processo CNC (computer numerical control), che sollevano una cassa di vetro e alluminio contenente una struttura scheletrica realizzata basandosi sul corpo dell’artista. Grazie all’utilizzo di uno specchio unidirezionale lo spettatore, osservando l’opera dal basso, può vedere simultaneamente la propria immagine e il contenuto della teca, proiettando così il proprio movimento vitale nell’immobilismo post mortem.
Ancora il tema della morte  alla base di lavori quali Me, Dead at 35 e Me, Dead at 36, due foto facenti parte di una raccolta più ampia d’immagini dell’artista ritratto “da morto” a diverse età.
Il significato concettuale di questa serie è spiegato direttamente dall’autore, in un’intervista col curatore Gianfranco Maraniello: “La serie Me Dead at… è una meditazione sulla mia mortalità e sull’idea che, andando avanti, sarò costretto a lasciarmi alle spalle qualcosa di me. La serie proseguirà fino alla mia morte, culminando con una foto Finale del mio cadavere“[1]. In questi lavori Day Jackson raccoglie testimonianze del fluire inarrestabile dell’esistenza umana, in modo analogo a quanto accade in un’opera come Study Collection VI, sorta di Wunderkammer ridotta a parete, che seleziona e raccoglie gli oggetti più disparati, con lo scopo di testimoniare una vita ormai assente.

Matthew Day Jackson, Study Collection VI, 2010. Courtesy Matthew Day Jackson e Peter Blum Gallery. photo: Adam Reich.

Gli oggetti, nella società  del consumo, identificano l’essere umano meglio di qualunque altra cosa; questa riflessione anima anche  In search of…, opera video che dà il titolo alla mostra bolognese.
Il video, diviso in tre parti intervallate da finte pubblicità dell’Audi, s’ispira al format di un popolare programma televisivo americano andato in onda tra gli anni ’70 e ‘80, condotto da Leonard Nimoy, che indagava fenomeni misteriosi e attività paranormali.
La seconda parte del filmato racconta la misteriosa scomparsa dell’artista Matthew Day Jackson, che lascia a testimonianza delle sue ultime giornate solo alcuni oggetti contenuti in un furgone, mentre la terza parte cerca di rivelare l’effettiva esistenza di un’antica civiltà estinta partendo da alcuni manufatti rinvenuti in uno scavo archeologico (alcuni dei quali sono utilizzati per la composizione di Study Collection VI).
Per Day Jackson la società contemporanea è capace di definire se stessa solo tramite i prodotti di consumo, e in questo senso la finta pubblicità inserita nel video racchiude il significato più profondo dell’opera, e forse dell’intera mostra: “[…] vediamo il nostro riflesso in ciò che compriamo, che a propria volta diviene espressione di ciò che siamo. È un processo molto intimo. Quella pubblicità esprime perfettamente quest’idea. Usarla come una sorta di trattato all’interno di un’opera d’arte mi pareva interessante ed è quello che sto cercando di esplorare nella mia produzione attuale. È qualcosa che deriva dalla consapevolezza di vivere in un ambiente di specchi che riflettono la mia identità. Io divento loro, nel diventare me stesso“[2].
Tirando le somme  le opere di Matthew Day Jackson racchiudono un processo di definizione di sé, degli altri e del contesto, inteso come scenario dell’esistenza, preciso e raffinato, ben innaffiato da quel gusto popolare tipicamente statunitense, e l’antologica del MAMbo rappresenta un ottimo punto di partenza per la promozione della giusta conoscenza, anche nel nostro continente, di un artista d’altissimo livello.

Chiara Cartuccia


[1] Giancarlo Maraniello, a cura di, Matthew Day Jackson. Istant book_5. Bologna 2011.

[2] ibidem.

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