James Turrell / Gagosian Gallery, London

Se la pittura è morta, come dissero in molti, James Turell potrebbe aver cantato al suo funerale usando l’immateriale come mezzo creativo. Una immersione nel puro colore e nel piano pittorico è quello che propone la Gagosian Gallery a Londra, fino al 10 dicembre, dandoci un assaggio della importante retrospettiva che il Solomon Guggenheim di [...]

Se la pittura è morta, come dissero in molti, James Turell potrebbe aver cantato al suo funerale usando l’immateriale come mezzo creativo. Una immersione nel puro colore e nel piano pittorico è quello che propone la Gagosian Gallery a Londra, fino al 10 dicembre, dandoci un assaggio della importante retrospettiva che il Solomon Guggenheim di New York  aprirà nel 2012.

JAMES TURRELL, “Dhātu”, 2010. Mixed media Dimensions variable. © 2010 James Turrell. Photo credit: Florian Holzherr/Courtesy of Gagosian Gallery

Nei suoi lavori Turrell scopre lo spazio che sta tra noi e gli oggetti, l’invisibile che permette la percezione del mondo, la luce. Questa diviene per la prima volta oggetto concreto, una esperienza tra sogno e realtà, uno stato di coscienza. L’artista californiano ci fa fare un passo indietro e prima di “vedere” ci fa sperimentare il processo della visione che lui definisce “behind the eye seeing”: “la luce è una sostanza potente. Abbiamo una connessione primordiale con essa” dice l’artista “ma per una cosa così potente le situazioni per sentire la sua presenza sono fragili”[1] . Questa esperienza di pre-visione è stata sperimentata in diverse mostre come Henry Moore Sculpture Trust in Halifax, e poi al ICA, London nel 1996. Adesso la Gagosian propone, Bindu Shard (2010) parte della perdurante serie Perceptual Cell. All’interno di quello che sembra una navetta spaziale non c’è nessun oggetto di percezione: la luce presente non si “vede”. Durante gli otto o dodici minuti che permettono all’occhio di adattarsi al buio, dilatando l’iride, il regno della visione “in-front” e “back-of-the eyes” si scompone in forme di transizione, visibili solo nel passaggio dalla luce al buio (Purkinje effect).

JAMES TURRELL, “Bindu Shards”, 2010. Mixed media 165 11/16 x 257 1/8 x 239 inches (421 x 653 x 607 cm). © 2010 James Turrell. Photo credit: Florian Holzherr/Courtesy of Gagosian Gallery

Turrell formatosi alla fine degli anni ‘60 nello stesso ricco clima artistico dell’avanguardia californiana di De Lap[2], elaborò le sue prime opere avendo presente il minimal di Agnes Martin e il movimento Light and Space di Robert Irwin[3], arrivando subito ad applicare la lezione di Frank Stella sulla futilità della pittura[4]. Emancipatosi dai fantasmi della prima astrazione ancora vivi nei  greenbergiani “paintrly abstracts”, Turrell è libero di concentrarsi sul concetto di arte come percezione. Questa, però, non è una ricerca formale che si concretizza in oggetti materiali, come nella Op-Art.
Per Turrell, che ha ottenuto una laurea in Psicologia Percettiva prima di studiare arte, la percezione visiva è una esperienza scientifica e allo stesso tempo intima, quasi spirituale.
I suoi lavori pongono una serie domande al nostro cervello: come vede le cose e cosa immagina di vedere? La serie Ganzfeld Space come City of Ahirit (1976), o più recentemente, Dhatu (2010) adesso alla Gagosian, sono dei fenomeni visivi dove profondità, superficie e colore sono una destabilizzante identità omogenea: il nostro corpo non regge tanta intensità e senza punti di riferimento perde l’equilibrio, come dimostrano i visitatori del Whiteney[5]. Il coinvolgimento che Turrell ci chiede è totale, mentale e psichico, è la ricostruzione, come in un poema di Edgar Allan Poe, del sogno nel sogno, dell’illusione del vivere: “Is all that we see or seem / But a dream within a dream?”[6]. Opere come Afrum-Proto (1966) o la serie Shallow Space Constroctions, che adoperano proiezioni di luce in relazione all’architettura, cambiano la percezione dandoci una nuova coscienza della visione. Non saremo più certi di ciò che ci circonda, ma è proprio questa incertezza che ci permette di vedere i dettagli ignorati da tempo: le ombre e i riflessi diventano protagonisti; l’inosservato finalmente comincia ad esistere.

JAMES TURRELL, “Roden Crater (blue sky)”, 2010. Carbon Print, Arches brand, type Platine paper, 100% cotton, 640 gm/m2 30 x 40 inches unframed (76.2 x 101.6 cm); 35 1/2 x 44 3/6 x 2 3/8 inches framed (90.2 x 112.3 x 6 cm) Ed. of 30. © 2010 James Turrell. Photo credit: Florian Holzherr/Courtesy of Gagosian Gallery

Il cielo è un ingrediente essenziale sia per molte delle creazioni di Turrell, che per la sua stessa vita. Fu la passione per il volo che portarono l’artista a cercare un nuovo studio all’aria aperta spingendolo al maestoso progetto di Roden Crater in Arizona iniziato negli anni ‘70 e ancora in corso. Come un gigantesco Stonehenge moderno questo cratere vuole essere un osservatorio ad occhio nudo. Questo progetto epico è ora presente in mostra alla Gagosian con otto stampe al carbone.
Cielo, colore, luce e ricerca di nuove esperienze visive: è la morte della pittura o la sua rinascita?

Livia Dubon Bohlig

[1] Guinness, S.  (2005:124) James Turrell, in Yuji Akimoto(ed.) (2005) Chichu Art Museum : Tadao Ando builds for Walter De Maria, James Turrell, and Claude Monet, Ostfildern : Hatje Cantz.
[2] Adcock, C. (1990) James Turrell, the Art of light and space, University of California Press: Berkley, LA and Oxford.
[3] Idem n. 1.
[4] Crimp, D.(2002:167) cited in Colpitt, F. (ed.) (2002) Abstract Art in the Late Twentieth Century, Cambrige University Press: Cambrige.
[5] Idem n. 1. Si tratta di una serie di stanze con differenti colori intensi proposta al Whiteney Museum di New York nel 1980. Turrell è anche stato querelato dopo che una visitatrice si è fratturata il polso, accusando l’artista di non aver disegnato correttamente lo spazio. Da quel momento Turrell non ha più prodotto opere che implicavano la deambulazione del visitatore.
[6] Poe, E. A. (1827) Tamerlane and other Poems, cited in n. 1.

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