Maggie Taylor. Tracce di un incontro

La scorsa primavera ebbi la fortunata occasione di incontrare personalmente Maggie Taylor. Da poco avevo concluso il mio corso sulle potenzialità creative dell’elaborazione digitale delle immagini, quando seppi che l’artista americana, pioniera nell’uso di Photoshop come strumento di creazione e non solo di ritocco, sarebbe arrivata a Brescia per una mostra personale.
Occasione irripetibile ma, soprattutto, [...]

La scorsa primavera ebbi la fortunata occasione di incontrare personalmente Maggie Taylor. Da poco avevo concluso il mio corso sulle potenzialità creative dell’elaborazione digitale delle immagini, quando seppi che l’artista americana, pioniera nell’uso di Photoshop come strumento di creazione e non solo di ritocco, sarebbe arrivata a Brescia per una mostra personale.
Occasione irripetibile ma, soprattutto, imperdibile. Detto, fatto: la invitai in Accademia, a presentare il suo lavoro e a sottoporsi alle domande che mi frullavano in testa, da quando avevo iniziato il mio percorso di ricerca intorno al fenomeno nascente della ‘pittura digitale’.
Gentilezza e generosità nel raccontarsi, disponibilità a commentare i lavori dei miei studenti, che da lei avevano tratto ispirazione: felici connubi d’idee e persone, che ogni tanto si avverano.

Maggie Taylor nel suo studio

Maggie Taylor inizia la sua presentazione dicendoci di come il suo lavoro avanzi con lentezza. Su questo punto è fermissima, lo ripete più volte nel corso del suo intervento: «il mio lavoro procede molto lentamente, posso rimanere per intere settimane su una sola fotografia, o su due immagini accostate, spesso una figura maschile e una femminile: livello per livello, seguendo una stratificazione di varianti». Troppi pensano che la magia di Photoshop risieda nella velocità di applicazione dei suoi effetti, per lei non è così, tutt’altro, ci dice di usare pochi comandi, non si perde nelle possibilità infinite e strabilianti del mezzo tecnologico, poiché le interessa «l’essenza dell’oggetto, che è passato da molte mani, ha una sua memoria, un suo vissuto».
«Quando inizio a lavorare su un’immagine non ho assolutamente idea di dove arriverò»: la lentezza fisica corrisponde alla sorpresa del risultato; ogni sua opera rimane impregnata di questo senso di stupore, che l’accompagna fin dal suo nascere. La velocità d’esecuzione presupporrebbe invece la certezza del risultato, a priori.
Ci parla del suo paese, la Florida, degli orizzonti piatti, che ritroviamo nei suoi sfondi; del suo amore per i dagherrotipi, di cui ha una vera e propria collezione: «non amo fotografare dal vivo soggetti umani, amo lavorare in solitudine»; della nascita del ciclo di illustrazioni per Alice in Wonderland: «Ho iniziato fotografando il paesaggio e la natura circostanti, stagni, orizzonti, nuvole, con una macchina digitale molto semplice; aggiungendo poi, via via, figure, animali etc. Il mio procedimento di lavoro è complesso: continuo ad aggiungere cose ma poi devo togliere, per arrivare ad un’immagine convincente».
Alla domanda sulla scelta di interpretare Carroll risponde: «Mi piace molto l’intreccio di memoria, sogno e fantasia, il modo in cui si influenzano l’un l’altra nella vita di tutti i giorni. La memoria dell’infanzia e la fantasia del quotidiano. Nella storia di Alice queste sono le costanti di base, perciò ho scelto di illustrarla».
Alla domanda sul senso metaforico delle sue immagini risponde con acume, di non avere nella testa una sorta di dizionario virtuale in cui ad ogni oggetto corrisponde un significato: «Le mie sono immagini ovviamente simboliche ma non sono simbolicamente ovvie». Per questo dichiara che le piace molto il contrasto tra i suoi titoli, spesso molto descrittivi, e il non-senso dell’opera, che stimola invece l’immaginazione. Del resto ha studiato filosofia e ama le «domande senza risposta» sospese nelle immagini surrealiste.

Milena Cordioli

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