René Magritte e Maggie Taylor: dentro o fuori?

La rubrica che qui si apre è frutto dell’unione di un pensiero critico e di un’immagine poetica, che ha preso forma nella mente (e, suppongo, anche nel ‘cuore’) di chi scrive: l’idea avventurosa che si possano seguire i percorsi invisibili, e leggere le parole mai scritte, di un’immaginaria ‘corrispondenza’ tra gli artisti del presente e [...]

La rubrica che qui si apre è frutto dell’unione di un pensiero critico e di un’immagine poetica, che ha preso forma nella mente (e, suppongo, anche nel ‘cuore’) di chi scrive: l’idea avventurosa che si possano seguire i percorsi invisibili, e leggere le parole mai scritte, di un’immaginaria ‘corrispondenza’ tra gli artisti del presente e i maestri del passato.
Restringiamo il campo: quegli artisti d’oggi che, nuotando nel mare immenso delle nuove tecniche digitali, cercano ancora un appiglio nella solitaria zattera della pittura tradizionale, per costruire dai resti di quell’imbarcazione un nuovo mezzo, capace di solcare i mari del futuro.
Abbandoniamo le metafore: sono coloro che rielaborano con mezzi tecnologici la fotografia, consapevoli di non poter mai oltrepassare i confini del monitor che hanno di fronte; i limiti di uno spazio chiuso entro una ‘cornice’, una superficie piatta ma virtualmente profonda che diventa quadro, finestra aperta sulla mente e sui suoi enigmi…che non conoscono invece confini.
Non è forse ciò che, con spregiudicatezza, ironia e coraggio, fecero i grandi maestri del secolo scorso, dal Surrealismo al Realismo Magico? Perforare la realtà…con uno sguardo abissale, capace di aprire una ferita di senso nel suo apparire e raggiungere le sue viscere.
E non fecero forse altrettanto alcuni grandi artisti dei secoli precedenti, premonitori di un nuovo sentire, solo cronologicamente più distanti ancora dal tempo del nostro vivere? Gli appuntamenti a venire cercheranno di rispondere a queste domande ‘retoriche’, qui poste come punto di partenza per svelare arcane e silenziose corrispondenze.

René Magritte e Maggie Taylor: dentro o fuori?

L’ambiguità dell’immagine, giocata su diversi livelli, è aspetto essenziale sia dei rebus magrittiani sia del complesso mondo virtuale inscenato da Maggie Taylor. La dialettica di spazi chiusi e orizzonti infiniti, come l’opposizione di natura ed artificio accomunano le loro surreali visioni.

Entriamo nel vivo: nel 1948 Magritte ‘dipinge’ Shéhérazade (link all’immagine); nel 2006 Maggie Taylor ‘costruisce’ She knew what was expected (Fig. 1). Lui dipinge solo in termini tecnici, poiché usa colori e pennelli, in realtà costruisce un’immagine seguendo le direttive del pensiero: egli pensa per immagini e usa le forme come parole sospese nell’aura di un misterioso vaticinio; lei costruisce, poiché utilizza fotografie che rielabora e riassembla in un collage virtuale, ma segue i principi magici della pittura, contraddicendo lo status di verità del dato fotografico. Se lui ‘pensa per immagini’, lei ‘dipinge per fotografie’. La corrispondenza qui sfiora le soglie della citazione: un piano prospettico (ipotetico pavimento su cui scivolare piuttosto che camminare…); dei tendaggi rossi ai lati che aprono la scena, più esplicitamente teatrale nell’opera della Taylor; l’invasione dello spazio esterno, la Natura, nell’interno architettonico, che mano d’Uomo ha con sapienza edificato, seguendo la millenaria illusione di poter misurare la realtà che lo circonda. Magritte prima, Maggie Taylor poi, simultaneamente nel cortocircuito della corrispondenza, si divertono a far vacillare le fondamenta di quest’illusione. Non, tuttavia, a farle crollare e questo è il punto: perché la realtà c’è, le cose che conosciamo ci sono, c’è ancora l’uomo, fragile sguardo intrappolato nelle maglie di un improbabile sinfonia di perle o nella maschera sospesa tra il palcoscenico e la vuota platea, su cui getta un’ombra del tutto realistica. La magia di Maggie è interrotta dalla qualità fenomenica di quell’ombra, ma siamo ancora nell’ambito della quintessenza filosofica del reale; in Magritte è la banalità disarmante del bicchiere di vetro (con la sua trasparenza da virtuosistico trompe l’oeil), e l’altrettanto prosaica presenza delle ombre, a farci sprofondare nella concreta esperienza del non senso.

Fig. 1 Maggie Taylor, "She knew what was expected", 2006. Inkjet print. Copyright Maggie Taylor 2006

Non sono sogni, non siamo altrove, ma nel mondo: è la realtà ad essere magica e misteriosa; lo capiamo perché la pittura di Magritte è assolutamente ancorata al vero, nei dettagli delle forme, dei corpi e nella materia delle cose; ancor più lo sappiamo perché Maggie Taylor utilizza soltanto fotografie, immagini catturate dal vero. Non nell’irrealtà ma nella ‘surrealtà’ di queste immagini è nascosto il loro potere magnetico.
La dialettica tra l’interno e l’esterno, inteso come spazio fisico e luogo mentale, amplifica i suoi orizzonti alla mise en scène dell’incontro misterioso tra il visibile e l’invisibile. Lo sguardo è il fautore di questa paradossale unione: verosimilmente veicolato dall’occhio, magicamente proiettato oltre le sue possibilità fisiche. In The pretender del 2009 (Fig. 2) Maggie Taylor riutilizza l’artificio della maschera con gli occhi, in un contesto ancor più improbabile e meraviglioso: le quinte teatrali sono ora una suggestiva architettura veneziana (fotografata dall’artista durante un recente viaggio in laguna!) e la maschera aderisce come una seconda pelle al viso di una bambina/bambola che sembra emergere come un’apparizione notturna dalle acque di un canale deserto. La maschera non è più sospesa nel vuoto e ciò la rende, per assurdo, ancor più inquietante: gli occhi della bambina, aperti, che fissano il nulla corrispondono alle luci accese delle preziose finestre sovrapposte alle tende. Un principio d’iterazione che intensifica in noi la sensazione di disorientamento, che, di primo acchito, ci suscita l’immagine della bimba mascherata.

Fig. 2 Maggie Taylor, "The pretender", 2009. Inkjet print. Copyright Maggie Taylor 2009

Il principio dello sdoppiamento è alla base anche di Il doppio segreto di Magritte, dipinto nel 1927 (link all’immagine). La corrispondenza è meno immediata rispetto alla coppia precedente: viaggia su binari non così chiaramente delineati nei loro percorsi, eppure non meno ‘nascostamente evidenti’. Appare chiaro come il presente non citi il passato ma dialoghi con esso attraverso il linguaggio criptico delle immagini.
Ritornando a Magritte, il doppio è il soggetto dell’opera. Lo sguardo interrotto diventa infinito, la realtà qui è letteralmente perforata: il volto (maschera/involucro) è asportato con precisione chirurgica e l’interno è violato. Sferette su una corteccia, superfici lisce e rugose, opposizioni, enigmi. Dietro è il mare, la linea d’orizzonte del mondo liquido, metafora dei sogni che incontrano le superfici dure e spigolose dei pensieri.
Dentro o fuori quindi? Non c’è risposta, poiché non c’è scelta: la realtà è come una medaglia a due facce che Magritte e Maggie Taylor amano dividere, per ricomporle su un unico piano, cosicché quella medaglia, da oggetto maneggevole e conosciuto si trasforma in un’immagine, entra nel quadro e diventa qualcosa di estraneo, un doppio virtuale e fantasmagorico.

Milena Cordioli

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