Francesca Woodman

L’autoscatto, il corpo nudo in ambienti domestici. La fotografia come strumento d’indagine della propria identità: diario del rapporto io/mondo, scrittura privata intorno al limite tra sé e l’altro. Artista precoce, figura di confine -già dal nome- tra cultura americana e cultura italiana, Francesca Woodman (Denver 1958-New York 1981) realizza il primo autoritratto a soli tredici [...]

L’autoscatto, il corpo nudo in ambienti domestici. La fotografia come strumento d’indagine della propria identità: diario del rapporto io/mondo, scrittura privata intorno al limite tra sé e l’altro. Artista precoce, figura di confine -già dal nome- tra cultura americana e cultura italiana, Francesca Woodman (Denver 1958-New York 1981) realizza il primo autoritratto a soli tredici anni svelando un tratto peculiare della sua poetica: la coincidenza dell’io narrante con l’io narrato, dell’artista col soggetto della fotografia. Woodman infatti ritrae sé stessa nuda in case disabitate, ambienti fatiscenti, angoli al riparo dallo sguardo convenzionale.
Americana, cresciuta in una famiglia d’artisti, arriva a Roma giovanissima per un soggiorno studi. Gli anni romani si riveleranno fondamentali per la sua produzione portando a effettiva fioritura le attitudini espressive.
Le foto sono dei bianco e nero di piccolo formato. Chi guarda, si avvicina con discrezione agli scatti e partecipa, con un po’ di soggezione, al discorso privato che si compie all’interno dei fotogrammi. Quella dell’artista, infatti, è una riflessione intima e costante sulla propria identità indagata attraverso la relazione continua tra corpo e spazio e sintetizzata poi nel linguaggio fotografico.
Ci si rende conto, allora, di come Woodman cerchi negli autoscatti innanzitutto il proprio sguardo e solo successivamente quello dell’osservatore, secondo un’idea di ricerca di sé confermata anche dai video che ritraggono le fasi precedenti lo scatto.
I filmati, la vera chicca della mostra, aiutano a comprendere la varietà dei codici linguistici che processualmente portano al fotogramma definitivo: il disegno, la scrittura, la performance partecipano tutti al risultato finale.
In questo modo, l’artista disegna la propria parabola all’interno dei confini del mezzo fotografico valicando gli stessi argini della fotografia.
D’altra parte, il confine incerto tra i vari linguaggi di cui Woodman si serve fa da pendant a un’attitudine spiccata dell’artista: la fusione.
Una sorta di luminoso panismo la induce a perdersi e a sparire, a confondere la propria pelle con quella degli oggetti delle sue foto. Lei si protegge, svanisce, si mimetizza nell’ambiente intorno al suo corpo mentre la macchina fotografica, come un fucile, le è puntata contro per bloccarne l’immagine. Woodman spesso è spalle al muro come nelle più classiche delle fucilazioni e spesso al muro si confonde.
Proprio con l’idea di morte le sue fotografie non smettono di fare i conti: non per via di un discorso sull’identità che inevitabilmente si dipana tra vita e morte, ma a causa di una certa critica che vuole Woodman legata unicamente ai temi dell’ angoscia, dell’inquietudine e della depressione femminile. Etichette ristrette da incollare all’opera di un’artista che come un lampo ha attraversato il secolo lasciando tracce di sé che bruciano per slancio e forza vitale e non consegnano elementi mortiferi. Può il suicidio della Woodman condizionarne a tal punto il lavoro? Non può forse rappresentare un gesto estremo di dissolvimento e quindi trasformazione? Non può essere letto come tentativo ultimo di compiere ciò che Francesca inseguiva nelle foto: la fusione tra il suo corpo e la materia secondo direttive non per forza negative?

Isabella Pedicini

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